Il baliòtt

di Laura Brambilla
  • villa ferrario - dipinto di laura brambilla

Agli inizi del Novecento la cascina Pagnana ospitava una comunità contadina, numerose famiglie vi abitavano come affittuari.

La vita che vi si svolgeva era scandita dai ritmi del lavoro nei campi e le stanze erano animate per lo più all’ora dei pasti. Un vociare continuo, pianti di bimbi, lo sbattere delle pentole risuonavano dalle cucine del piano terra; seguiva una breve pausa silenziosa dopo pranzo, quando gli uomini si andavano a coricare nelle camere al piano superiore. La notte, il lungo oblio era rotto dal latrare dei cani e dai pianti nelle culle: il silenzio, mantello avvolgente, già all’imbrunire portava con sé parvenze appena percettibili al calare del sole, che divenivano leggendarie presenze con il sopraggiungere del buio.

Andem in cà” (“andiamo in casa”) sussurravano le ragazze, “Doe hinn i bagàj? Gh’hinn tùtti?” ( “Dove sono i bambini? Ci sono tutti?”) controllavano le madri roteando gli occhi intorno, “Gh’avi sarà bén la stàlla?” (“ Avete chiuso bene la stalla?”) domandavano i padri, “L’è l’ora, l’è l’ora! De nòtt riven le strìe” (“E’ l’ora, è l’ora! Di notte arrivano le streghe”) si ostinavano i vecchi, “Sèmm giamò nùmm fantàsmi cont la fàmm che gh’èmm, tùtti pèll e òss…” (“Siamo già noi dei fantasmi, con la fame che abbiamo, tutti pelle e ossa…”) azzardavano gli stolti. E intanto là fuori, nell’oscurità, la forma che si era delineata sempre nello stesso punto, accanto all’ingresso delle mura perimetrali, si stagliava contro il cielo. Non era più, a quell’ora, il noce secolare, massiccio, solitario e tremulo, era il covo vibrante e lussurioso delle perfide megere: svolazzavano con i loro neri mantelli, pendevano dai rami che, durante l’inverno, rinsecchiti e freddi, diventavano arti e dita spettrali, adunchi artigli rivolti al cielo in un gesto di sfida. Poi le streghe (erano state viste più di una volta) saltavano a terra, con la destrezza e l’agilità del gatto. Le risate agghiaccianti precedevano la danza, furiose, a volte bellissime, a volte orribili, coi lunghi capelli scompigliati giravano e giravano attorno al noce, sibilando, cantilenando, gridando. Uno spettacolo terribile, le parole non bastavano a descriverlo.

Berto aveva vissuto alla Pagnana sino all’età di dodici anni e quando al tramonto rientrava dalla campagna si irrigidiva alle esortazioni degli amici che gli intimavano di accelerare il passo non appena si trovava sotto il noce, o scrutavano in su, nel timore di scorgere le nere figure appollaiate sui rami. Egli, non contagiato dal loro turbamento, ammutoliva e, intenzionalmente, rallentava il passo di modo da provare a sè stesso che la sua obiettività non venisse offesa da superstizioni e fanciullaggini.

Tuttavia, l’infausto giorno in cui la sua famiglia venne sfrattata, gli parve di vederle davvero, le ghignanti megere tra le fronde, mentre, per l’ultima volta, passava sotto il noce voltando le spalle alla Pagnana che fino ad allora aveva costituito tutto il suo mondo. L’estensione dei prati precedeva il carro su cui avevano caricato lo scarso mobilio e le poche provviste, davanti a loro solo una strada attraverso una distesa verde.

In quella distesa si spandeva il timore per l’avvenire della famiglia, attenuato però da tre fattori, che costituivano, in quel frangente, la sua risorsa di forza: lo spiccato senso pratico che gli consentiva un’ottima capacità di adattamento e di sopportazione del dolore, fisico o psicologico; l’eccitante sperimentazione di nuove emozioni che anima lo spirito giovane e inesperto; l’energia che gli infondeva il carattere forte e pragmatico della madre.

Virginia era una donna minuta sino all’inverosimile, la statura di una bambina, compensata tuttavia da un’indole energica. Quando camminava accanto al marito Leopoldo, altissimo e longilineo, appariva ancora più piccola, ma tutti sapevano che era lei il perno sul quale quella gran pertica si appoggiava. Era lei a non perdersi d’animo di fronte alle difficoltà, ad avere trasmesso senso pratico ai figli, ad avere spronato il marito all’acquisto di una piccola proprietà. Aveva impiegato non poco tempo e molta perseveranza per convincerlo a fare quel passo che, sebbene comportasse dei rischi, avrebbe potuto rappresentare una possibilità di riscatto per la famiglia. Non si stupì troppo la sera in cui il marito, dopo lunghe riflessioni, acconsentì. Il dolore per lo sfratto e la consapevolezza della loro umile condizione venivano alleggeriti dal concretizzarsi di una nuova vita in cui avrebbero posseduto qualcosa, e questo fatto rappresentava una grande fonte di consolazione.

Cascina Ferrario era il nome del comprensorio di varie strutture rurali e di una villa padronale, che si sviluppava lungo il naviglio Martesana, alla frazione Riva.

Il carro varcò il confine del cascinale che accoglieva la famigliola traballante e spaesata. Un viale di terra battuta, ideale per il passaggio a cavallo, un fienile doppio e al di sotto la stalla, ampia abbastanza per una decina di vacche (in futuro forse… ora se ne potevano permettere solo una), un’aia vasta con porticati e un pollaio. La casa di ringhiera a due piani posta di fronte alle stalle pareva sorridere. Le ruote chiassose si arrestarono, alla famiglia pareva di aver fatto un lungo viaggio, sebbene avessero percorso solo pochi chilometri. Accanto all’uscio un giovane pero, esile e ridente, che in nulla ricordava la lugubre possanza del vecchio noce.

Leopoldo, il padre, per primo varcò la soglia, poi Angelo, il nonno di Berto, poi Virginia la madre, seguita da Emilia, la sorella maggiore, e da Angelo, il fratello minore. Berto indugiò un istante per prendere visione dell’insieme, quindi si addentrò nell’interno. Il camino era sopito al piano inferiore, avrebbe scaldato poche delle loro serate, perché per lo più avrebbero trovato un rifugio altrettanto caldo ma più economico nella stalla. Nell’ingresso la prima cosa che collocarono fu il ritratto della Sacra Famiglia, che non mancava in nessuna casa contadina. La scala esterna li condusse al piano superiore dove avrebbero sistemato i letti. Dalla finestra della camera più piccola, dove i bambini avrebbero dormito, la vista dava sulla villa padronale settecentesca e sull’immenso giardino; Berto aveva saputo solo che un secolo prima era stata la dimora dei padroni di una fornace che produceva mattoni e che la casa dove avrebbe vissuto da quel giorno ne era stata la sede. Al piano terra, in un piccolo deposito adiacente alla cucina, trovò una gigantesca macina di pietra grigia, nei giorni successivi, con l’aiuto del fratello, la sollevò e la pose sopra ad un paracarro di pietra, cementandola. La grande “prèia” (“pietra”) circolare divenne un tavolo in un angolo del cortile, appena fuori l’uscio; sarebbe presto diventato il fulcro del mondo contadino che le girava attorno, il perno grezzo eppure ammaliante dei pomeriggi conviviali delle donne, delle serate di riposo e di preghiera e della mondatura di ogni genere di ortaggio. Come il cuore pulsante di una giostra avrebbe assistito al ruotare di corpi affaccendati, di risate, di liti, di pettegolezzi di ogni sorta, di corse dei bambini, di indugi dei cani, di rivoli di pioggia e di arabeschi di sole, eppure, come la campagna, nell’ospitare questa girandola pazzesca, sarebbe rimasta immota.

Non era trascorso molto tempo dall’arrivo della famiglia nella nuova sistemazione, che Virginia diede alla luce un’altra bambina. La gracile creaturina però le arrecava dei seri fastidi, era così nervosa e sempre piangente che faticava ad occuparsene. Non sapeva davvero cosa fare per placarla, di latte ne aveva in abbondanza, ma sembrava non bastare alla serenità della piccola. Così aveva preso la decisione di lasciarla strillare, anche per ore. La fasciava stretta nelle bende includendo anche le braccia, perché crescesse dritta, e la adagiava nella candida culla, poi si recava al lavatoio sulle sponde del naviglio e vi rimaneva fino a che non avesse terminato di fare il bucato. Insieme alle altre donne cantava canzoni popolari, era bello sentire quelle allegre melodie che accompagnavano lo sciabordio dell’acqua. La distanza che la separava dalla piccola riduceva il fastidio che le sue grida acute le procuravano. Una mattina, coi panni lavati nella cesta, Virginia rientrò in casa, un silenzio insolito vi regnava. Distese i panni al sole, adagiandoli direttamente sull’erba come era solita fare, salì le scale ed entrò nella camera dove era la culla. Il volto fanciullo era immoto, su di esso era impresso un etereo candore. Per un attimo ebbe l’impressione di osservare Maria Bambina fatta di cera, che spesso aveva visto in chiesa e che, chissà per quale motivo, le aveva sempre trasmesso un senso di inquietudine. Sollevò il corpicino, lo posò sul letto, prese l’abito lungo in pizzo che le aveva messo in occasione del battesimo, quindi lo adagiò sulla cassettiera, sotto il crocefisso ligneo. Si inginocchiò e recitò una preghiera di ringraziamento. Solo per un istante il sospetto: cosa aveva realmente causato la morte della piccola? La risposta, quasi immediata, che fosse stato il volere divino, arrivava a semplificare quella realtà, rendendola accettabile. Si fece il segno della croce. Tutto pareva essere al proprio posto: la bambina era morta e lei aveva molto latte per nutrire dietro compenso un altro infante. Lei, donna minuta, donna ignorante, donna acuta, donna innocente, non avvezza alla ricerca della verità, avrebbe accettato il suo posto nel mondo, lasciando i pensieri azzardati, rischiosi, ad altri, forse ai posteri. Scese nell’aia, le braccia levate al cielo, e correndo incontro alle altre donne che stavano rincasando, annunciò che Dio si era ripreso quella bambina tanto nervosa, alzò lo sguardo e gridò : “M’ha vutà la crós! M’ha vutà la crós!” (“Mi ha aiutato la croce! Mi ha aiutato la croce!), tutte le donne, levati i cappelli, si segnarono con devozione.

La Provvidenza era arrivata al momento opportuno, Virginia si dispose a fare da balia al bambino di una donna ricca della città. Il “baliott” che le fu affidato quasi subito era un bel bimbo biondo di nome Arcangelo, venne accolto come una benedizione per il vantaggioso apporto economico che avrebbe garantito e rimase con lei per alcuni mesi. Ogni fine settimana i genitori venivano da Milano per vederlo e con loro compiacimento lo trovavano sempre più pasciuto. La madre, avvolta in abiti eleganti, lo prendeva tra le braccia con un sorriso un po’ amaro per la sua incapacità a nutrirlo; la minuscola Virginia, con l’abito nero di tutti i giorni, glielo porgeva con quella deferenza tipica dei contadini di fronte ai ricchi, mista ad un velo di furbizia. Per farlo apparire ben nutrito spesso gli somministrava, oltre al proprio latte, anche quello vaccino, ma non ne avrebbe fatto cenno alla madre del piccolo. Non mancava poi di pettinarlo bene forgiando a banana il ciuffetto dei capelli biondi.

Virginia pensava che un ulteriore segno della Provvidenza fosse stato quello di ricevere il bimbo a casa sua, senza doversi trasferire in casa d’altri, cosa che le avrebbe arrecato una certa nostalgia della propria famiglia. Sapeva di altre donne che avevano alloggiato come balie in città ed erano presto cadute in uno stato depressivo, nonostante fossero trattate nel migliore dei modi dai padroni di casa e ricevessero da loro doni inaspettati, come abiti della miglior stoffa e cibo prelibato.

Spesso nel corso della giornata entrava nella stalla per dare un’occhiata al vitello nato da poco, e sempre accompagnava quello sguardo indagatore con una breve, fugace preghiera; temeva che morisse per una qualche patologia di cui non ricordava il nome e ripeteva più volte, per rafforzarne l’efficacia, la formula propiziatoria: “ Signór te preghi, fall mínga morì…fall mínga morì…” (“Signore ti prego, non farlo morire…non farlo morire…”). Poi, avvolta nel lungo scialle di lana, con passetti rapidi e decisi rincasava, avendo però l’accortezza di non voltarsi… a quell’ora, quasi certamente, vagavano le streghe.